2 febbraio 2013

Torekvés, un sogno ad occhi aperti

Quando si parla di memoria, di storie e vicende da non dimenticare, non possiamo non citare la macchia indelebile dell'orrore fascista e di ciò che furono quei 7 anni di follia in cui i venti razzisti in Europa sconvolsero per sempre la nostra cultura.

Mio nonno ha fatto il militare in provincia di Ferrara. In quel periodo non c'era scelta, non potevi rifiutare di obbedire agli ordini, se non volevi conseguenze per te o per i tuoi cari. In uno dei racconti più leggeri del suo periodo emiliano, mi raccontava del grande Bologna del presidente Dall'Ara, quello degli scudetti, degli uruguaiani, di "Anzlein" Angelo Schiavio e dello "squadrone che tremare il mondo fa", in grado di spodestare gli inglesi dal dominio incontrastato del calcio. Grazie al libro di Matteo Marani, "Dallo scudetto ad Auschwitz" e grazie a questa piccola perla di televisione, firmata da Federico Buffa, ho conosciuto la storia di Arpad Weisz, grande giocatore ungherese, allenatore rivoluzionario e vincente, perseguitato per l'unico fatto di essere ebreo. La sua colpa, il suo marchio. 

E nonostante le vittorie, nonostante fosse l'allenatore di calcio più importante e vincente dell'epoca assieme a Vittorio Pozzo, nel giro di un anno, è passato dalle vittorie sul campo alla sconfitta della storia, un disastro umano, sociale e culturale: le leggi razziali

Finì dalla parte delle vittime: prima l'esilio, poi Auschwitz. 

Così, ho avuto la possibilità di ricordare una storia smarrita per 50 anni. E credo non ci sia più grande tesoro da poter recuperare, tutti i giorni: assieme ai ricordi felici, soprattutto quelli infelici ci permettono oggi di definire meglio ciò che vogliamo non accada mai più. Mai più le mani sugli occhi, mai più sia possibile riabilitare il frutto di un'ideologia marcia, mai più sia possibile riavvicinare alle nostre menti quelle idee e quelle azioni che portarono un'intera generazione alla guerra, alla violenza, all'insensato torpore della ragione che ancora oggi ci tormenta.
E in fondo la dea Nike è come il gelo, è il filo conduttore di tutta questa storia, di una storia in cui la nostra cultura ha chiuso gli occhi per sette anni e si è dimenticata da dove proveniva: dal bacino del Mediterraneo di 2700 anni fa dove la Nike alata, assieme ad Atena, era onorata. E se non li avessimo chiusi quegli occhi probabilmente non sentireste questa storia, ma quella di Roberto Weisz, che aveva tenuto i contatti con i suoi amici dell'epoca. Sarebbe qui a raccontarci i segreti di suo padre, il grande Arpad, e ci avrebbe raccontato di come avrebbe vinto la stella, ma non quella grande e gialla, ma quella piccola, del decimo scudetto che inevitabilmente sarebbe arrivato. E invece siamo qui a farci delle domande che non possono avere risposta.
Federico Buffa è un giornalista e autore televisivo, telecronista sportivo e avvocato.  Un grande storyteller, se mi permettete. Matteo Marani è un giornalista sportivo. Nel 2007 il suo libro "Dallo scudetto ad Auschwitz", dedicato all'allenatore ebreo-ungherese Árpád Weisz, ha vinto il Premio per la letteratura sportiva di Chieti.  Torekves è la squadra di calcio dove Árpád Weisz è diventato celebre.  In ungherese significa "sogno ad occhi aperti". Mai più le mani sugli occhi.

Vincenzo Napolitano